Recensione: “Pietà”
Voto: 8
Un’opera eccezionale, che, a partire dal titolo e continuando con la foto della locandina (che raffigura una scena non presente nel film) sembra riferirsi alla ‘Pietà’ di Michelangelo (ovvero alla scultura, custodita presso la Basilica di San Pietro, che raffigura la Vergine che tiene in braccio il Figlio morto), e, come quest’ultima, sprigiona dalle drammatiche, passionali e cruente forme plastiche descritte una meravigliosa purezza, portando lo spettatore in una dimensione di rarefatta meditazione. ‘Pietà’, il nuovo film del già acclamato Kim Ki Duk, come la scultura di Michelangelo tratta di una madre che raccoglie un figlio, in questo caso vivo, ma reso cadavere ‘spirituale’ dalle sue tante nefandezze. Il film, ora possiamo dirlo, ha vinto con pieno merito l’ultima Mostra del Cinema di Venezia; contiene numerosi riferimenti alla fede cristiana, che non è la fede del suo regista, ma che raramente è stata descritta con tanta precisione e incisività. Siamo in una metropoli coreana: Kang- Do è un giovane strozzino, spalle larghe e sguardo torvo, che con crudeltà inaudita punisce i suoi debitori, piccoli fabbri e titolari di officine meccaniche, mutilandoli con i loro stessi strumenti di lavoro, per poter intascare il denaro delle loro assicurazioni anti-infortunistiche. Kang-Do è l’essere più “spietato” che si possa immaginare, il terrore di tutte le famiglie in bolletta del quartiere, che prima si servono dei suoi prestiti e poi diventano …carne da macello. Ma anche uno ‘spietato’ come lui, può diventare pietoso… Dopo 30 anni, nella vita del giovane si presenta una donna, che dice di essere sua madre. Dopo un’iniziale diffidenza, Kang-Do crede alla donna e, in maniera molto sofferta, l’accoglie nella sua vita… Da rimarcare l’eccezionale bravura del regista, che mostra, proprio come nella fede cristiana, quanto la mancanza di amore (quella sperimentata dal giovane strozzino in tutta la sua vita, fin dall’infanzia) possa creare dei mostri, ma anche quanto l’amore possa guarire e sanare qualunque persona, anche la più malvagia: è meravigliosa la trasformazione che avviene nel cuore, e anche nello sguardo di Kang-Do, quando, sentendosi amato dalla madre da cui era stato abbandonato da piccolo, non prova più il desiderio di fare del male, ma, appunto, comincia ad avere ‘pietà’ dei suoi debitori. E’ meraviglioso come il regista punti anche su un altro grande valore cristiano, il perdono… quello che la madre del protagonista mostra verso il figlio, efferatissimo peccatore, accogliendolo tra le sue braccia… Il film contiene delle scene di una crudeltà mai vista, braccia tagliate, gambe spappolate del ‘macellaio’ protagonista, e questo indubbiamente lascerà molti spettatori interdetti o scandalizzati. A costoro rispondo in maniera semplice: ciò che è descritto è una verità del nostro mondo, quei gesti così efferati avvengono realmente, dunque, piuttosto che scandalizzarvi e giudicare male un film perché li contiene, scandalizzatevi e giudicate male la società, perché li contiene. E’ proprio da questa realtà crudele e macellaia e da questi corpi dilaniati che il regista, sapientemente, trae forza: da ciò egli prepara il terreno con cui, per contrasto, porta lo spettatore a meditare su valori morali elevatissimi, quali il perdono di crimini orrendi, l’accettazione di dolori enormi, la possibilità di ricominciare che dovrebbe essere data a chiunque, e ovviamente la denuncia sociale delle condizioni misere delle periferie coreane. Ma soprattutto, Kim Ki-Duk mostra che solo l’Amore guarisce tutto… Il film ha un finale difficile, che sembra rimettere tutto in gioco…in realtà, il finale ricorda che la vita non è una favola, e che difficilmente l’esistenza di chi ha operato tanto male può concludersi con un ‘e vissero felici e contenti’ Meravigliosa è la performance del protagonista, Lee Jung-Jin, e della coprotagonista, Jo Min-Su